Studi e Ricerche

GALANTI ,SFATIAMO un mito. I controlli sugli sportivi in Italia non sono i migliori del mondo.

E, per favore, si evitino allarmismi: chi ha un cuore sano non muore all’improvviso».INTERVISTA AL PROF GALANTI , DIRETTORE DELL'ISTITUTO DI MEDICINA DELL SPORT DI FIRENZE

Ma noi italiani non eravamo all’avanguardia sugli esami agli sportivi?

«Lo eravamo nel 1982, quando abbiamo introdotto la visita d’idoneità agonistica. Una rivoluzione. Adesso siamo rimasti fermi lì».

Sì, ma i professionisti fanno anche test che dovrebbero individuare eventuali anomalie, come ad esempio l’ecocardiogramma.

«Certo. Ma il problema è che tutti questi esami vengono fatti solo una volta all’anno, tant’è che non c’è differenza tra l’incidenza di morti durante l’attività fisica tra calciatori dilettanti o professionisti».

Quindi i giocatori anche di alti livelli non sono monitorati di continuo?

«Macché. La legge obbliga a fare un solo controllo all’anno...».

Insomma, le società lasciano correre.

«Diciamo che non è sufficiente fare visite in momenti fissi. Ad esempio, se un giocatore ha la febbre a 40 e torna subito in campo, bisognerebbe fare maggiore attenzione, perché i rischi, dopo un’infezione, sono maggiori».

E, invece, che cosa si fa?

«A fronte di un certificato d’idoneità gli sportivi si sentono invincibili e, magari, sottovalutano certi sintomi».

Negli altri Paesi, però, non c’è neanche l’obbligo dell’idoneità agonistica...

«È vero. Però se confrontiamo i casi di morti improvvise di giovani sportivi in Italia con quelli negli Usa non c’è una grande differenza».

Ma non è che vengono fatti degli errori durante gli esami?

«Può essere. In base alla mia esperienza, con l’ecocardiogramma ho sempre riscontrato eventuali anomalie. Poi, ovvio, ci sono le eccezioni».

Cioè?

«I casi di morte improvvisa, sul campo, come Morosini che aveva soltanto 25 anni, sono molto rari, uno su 300mila all’anno. Ergo, bisogna anche mettere in conto l’elemento incertezza».

Quanto incide?

«Un 5 per cento, anche perché le malattie possono variare nel tempo. O evolversi dopo aver fatto l’esame di routine. Di sicuro, nel 95 per cento dei casi eventuali problemi si riescono a diagnosticare».

E l’uso di eventuali sostanze dopanti, invece?

«In generale, certi farmaci o sostanze come la cocaina aumentano i rischi e negli agonisti — che hanno una stimolazione adrenalinica molto forte — facilitano le aritmie».

Ma nel peggiore dei casi, quanto incidono, invece, i soccorsi?

«L’efficacia della defibrillazione è in funzione del tempo. In un minuto, si ha il 70 per cento di possibilità di recupero; in due minuti, il 40 per cento, mentre basta far passare tre minuti per avere soltanto il 10 per cento di possibilità di salvezza».

Nel caso di Morosini l’ambulanza è rimasta bloccata da un’auto. Il ritardo può aver fatto precipitare la situazione?

«Non credo che un minuto in più o meno avrebbe cambiato la situazione».

La medicina italiana, allora, dopo quest’ultima tragedia deve ritenersi sconfitta?

«Di sicuro credo che serva un esame di coscienza. E non soltanto di fronte ai decessi, ma a partire dal caso di Antonio Cassano».