Studi e Ricerche

Le Disabilita' negli sport di squadra: le cardiopatie

Continuano le lezioni di teoria tecnica e didattica degli sport di squadra adattati

CARDIOPATI ISCHEMICA
La cardiopatia ischemica è la mlt cardiocircolatoria a + alta incidenza nel mondo occidentale
La prevalenza aumenta con l’età
STORIA
nel 1772 William Heberden riferiva su un disturbo in cui i pazienti sviluppavano una sgradevole sensazione di dolore al petto durante la deambulazione
Heberden ha chiamato questo disturbo “angina pectoris” ed ha notato che questo fenomeno scompariva con il riposo e si esacerbava con l’esercizio fisico
Questo è il primo report sui sintomi della cardiopatia ischemica che è una condizione di insufficiente perfusione miocardica che affligge milioni di persone ed è la prima causa di morte nel mondo

La cardiopatia ischemica, prima causa di mortalità e morbilità nella società occidentale, comprende una serie di entità cliniche tra di loro ben distinte rappresentate da angina stabile, angina instabile, infarto miocardico, morte improvvisa, aritmie.
L'elemento fisiopatologico comune nelle diverse forme è L'ischemia miocardica, che è un fenomeno metabolico secondario ad una inadeguata ossigenazione del tessuto cardiaco per una discrepanza tra l'apporto e il consumo di ossigeno.
la causa principale della cardiopatia ischemica è la malattia aterosclerotica delle arterie coronarie.
Angina pectoris
Dati epidemiologici.

La cardiopatia ischemica è la più importante causa di morbilità e di mortalità nel mondo occidentale. Circa il 10% dei pazienti con cardiopatia ischemica presenta angina instabile come prima manifestazione di malattia, ma la percentuale di pazienti con cardiopatia ischemica che presenta uno o più episodi d’instabilità nel corso della loro malattia è molto più alta. Da notare, inoltre, che circa il 50% dei pazienti ricoverati per infarto riferiscono la presenza d’episodi anginosi che configurano un quadro d’angina instabile nei giorni immediatamente precedenti.
Nonostante la riduzione di mortalità per cardiopatia ischemica osservata negli ultimi
20 anni, il numero di ricoveri per angina instabile è aumentato, almeno negli Stati
Uniti, da 130.000 nel 1983 a 570.000 nel 1991. La ragione di questa apparente contraddizioneè probabilmente duplice: da una parte l’affermazione di criteri meno restrittivi per la diagnosi d’angina instabile; dall’altra la riduzione di mortalità per cardiopatia ischemica con conseguente aumento del rischio d’andare incontro ad una fase d’instabilità.
Negli Stati Uniti, circa il 60% dei pazienti con angina instabile come prima manifestazione di malattia è di sesso maschile ed ha più di 60 anni. Con l’aumentare degli anni la percentuale di pazienti di sesso maschile diminuisce. Più donne che uomini sono ricoverati con diagnosi di angina instabile dopo gli 85 anni; ciò riflette, tuttavia, il maggior numero di donne che raggiungono questa età piuttosto che una variazione nella prevalenza d’angina instabile nei due sessi.
Patogenesi dell’angina instabile.
L’angina instabile, così come l’angina stabile, dovrebbe essere considerata una sindrome, poiché i fattori che causano l’instabilità e la sua evoluzione verso l’infarto possono essere diversi in diversi pazienti. La tendenza ad evolvere verso l’infarto ha determinato il fiorire, col passare degli anni, di diversi termini descrittivi come “angina pre-infartuale”, “angina in crescendo”, “sindrome coronarica intermedia” o “insufficienza coronarica acuta”, finché nel 1971 Conti et alproposero il termine “angina instabile”.
Anche se è stato ripetutamente criticato,questo termine è stato infine accettato universalmente allo scopo d’allertare il medico circa il maggior rischio d’eventi clinici gravi rispetto all’angina stabile.
L’angina instabile è causata dall’instabilità di una stenosi (spesso non critica) che
determina trombosi e vasocostrizione; queste ultime aumentano acutamente la gravitàdella stenosi preesistente determinando angina di nuova insorgenza a bassa soglia o riduzione della soglia di un’angina preesistente; aggravamenti transitori della trombosi e/o della vasocostrizione possono causare angina a riposo.
Storia naturale dell’angina instabile. Quest’ultima può evolvere verso l’infarto oppure
evolvere verso una fase di stabilità con soglia anginosa ridotta o simile a quella antecedente allafase d’instabilità Infatti In un periodo di tempo variabile ma di solito non superiore ad alcune settimane, l’instabilità della placca aterosclerotica può progredire verso infarto del miocardio (causato da occlusione coronarica persistente) o verso la morte improvvisa (favorita da un’alta suscettibilità miocardica alle aritmie) oppure può evolvere verso una fase di stabilità favorita dalla lisi o dall’organizzazione del trombo . In quest’ultimo caso la riduzione della riserva coronarica causata dall’organizzazione del trombo, se non viene compensata da un adeguato sviluppo del circolo collaterale, determina una riduzione della soglia anginosa durante sforzo.
Le cause primarie della trombosi reversibile e della vasocostrizione transitoria responsabili degli episodi ischemici transitori che caratterizzano l’angina instabile e le cause dell’evolutività di quest’ultima verso l’infarto sono ancora poco note e probabilmente multiple. Tuttavia, esiste una serie di dati angiografici, autoptici e clinici, riportati sinteticamente nei paragrafi successivi, che rappresentano un importante punto di partenza nella ricerca dell’eziologia dell’angina instabile.

Dati angiografici. In media pazienti con angina instabile all’angiografia coronarica
presentano stenosi coronariche più complesse, ma non emodinamicamente più gravi, ed una maggiore prevalenza di trombi rispetto ai pazienti con angina stabile. È degno di nota,inoltre, che circa il 60% dei 1473 pazienti con angina instabile arruolati nello studio TIMI IIIB avevano coronarie angiograficamente normali o appena malattia di 1 vaso coronarico e solo il 15% presentava malattia di 3 vasi10. L’instabilità dell’angina si associa ad una progressione della gravità dell’aterosclerosi coronarica nel 75% dei pazienti. Non esistono comunque alterazioni angiografiche che si possano considerare patognomoniche dell’angina instabile.

Dati autoptici. Il dato anatomo-patologico più tipico in pazienti che muoiono d’angina
instabile è la presenza d’un trombo murale a livello della placca aterosclerotica instabile, con occasionale embolizzazione piastrinica a valle. Una percentuale variabile dal 50 al 75% dei pazienti con sindromi coronariche acute presentano fissurazione della placca al di sotto d’un trombo murale. Tuttavia, placche fissurate si osservano anche nel 10% dei pazienti chemuoiono di cause non cardiache, percentuale che arriva al 20% in presenza di fattori di rischio coronarico. Pertanto, ne’ la fissurazione della placca aterosclerotica ne’ altri reperti istopatologici, come la presenza d’infiltrati infiammatori e d’iperplasia neointimale, sembrano essere specifici dell’angina instabile

Attivazione endoteliale.
Un importante concetto maturato negli ultimi anni è che l’endotelio può essere attivato dalle citochine secrete da cellule infiammatorie attivate anche in assenza difissurazione della placca. L’endotelio attivato, a sua volta, sintetizza potenti vasocostrittori,molecole d’adesione per i leucociti e molecole pro-coagulanti, quali fattore tissutale e PAI 1.
L’endotelio attivato, pertanto, trasforma le sue proprietà vasodilatatrici e anti-coagulanti in vasocostrittive e pro-coagulanti. Studi clinici hanno inoltre dimostrato che in un’alta percentuale dei pazienti con angina instabile le cellule responsabili della risposta infiammatoria (linfociti, granulociti e monociti) mostrano un livello d’attivazione maggiore di quello osservato nei pazienti con angina stabile. L’attivazione delle cellule infiammatorie potrebbe essere una semplice conseguenza dell’ischemia-riperfusione, anche se studi iniziali
sembrano negarlo, oppure potrebbe essere espressione d’una causa primaria d’instabilità di natura infettiva o auto-immunitaria. Qualunque ne sia la causa l’attivazione endoteliale causata dalle citochine sintetizzate da cellule infiammatorie attivate potenzia gli effetti devastanti d’una placca instabile e può contribuire a determinarne la rottura attraverso la screzione d’enzimi proteolitici.

Iperreattività del muscolo liscio. Nei pazienti con angina instabile si può osservare
un’iperreattività del muscolo liscio coronarico a stimoli vasocostrittori. Nei pazienti con anginavariante, caratterizzata da sopraslivellamento del tratto ST durante angina, e con assenza di stenosi critiche l’iperreattività non specifica di un segmento coronarico a stimoli vasocostrittori rappresenta l’alterazione fondamentale responsabile dell’instabilità in quanto causa spasmo occlusivo. In questi pazienti l’iperreattività non sembra essere legata ad un’alterazione di un recettore specifico delle cellule muscolari lisce, in quanto da una parte agonisti di recettori diversi possono causare spasmo nello stesso paziente, dall’altra antagonisti specifici non prevengono lo spasmo. Pertanto, le cause dell’iperreattività risiedono probabilmente in alterazioni post-recettoriali legate alla trasduzione intracellulare dei segnali di membrana. Non è chiaro se le cause dell’iperreattività del muscolo liscio coronarico nell’angina variante con
coronarie indenni da stenosi ostruttive siano simili a quelle responsabili dell’iperreattività osservata in pazienti con angina instabile e stenosi ostruttive. Ancora da definire nella patogenesi dell’angina instabile e nel determinare l’evoluzione verso l’infarto è il ruolo giocato dalla vasocostrizione dei vasi coronarici distali.
Fattori di rischio sistemici. Numerosi studi hanno documentato la presenza d’un aumento sistemico della reattività piastrinica e della generazione di trombina ed una riduzione dell’attività fibrinolitica in pazienti con sindromi coronariche acute. Questi fattori di rischio sistemici hanno la potenzialità di rendere le placche aterosclerotiche più suscettibili a stimoli trombogeni e vasocostrittori locali.
In sintesi, le cause primarie della trombosi coronarica transitoria,che è nella maggioranza dei casi direttamente responsabile dell’angina instabile, sono ancora ignote. La rottura di placca, che può essere favorita da metallo-proteinasi secrete da cellule infiammatorie attivate,può contribuire a determinare l’instabilità, ma non è specifica di questa sindrome. Le cause responsabili dell’attivazione delle celluleinfiammatorie sono ancora poco note, ma sono probabilmente multiple.
Un’iperreatività del muscolo liscio coronarico, le cui cause sonoancora ignote, può contribuire a modulare la gravità dell’ostruzione causata dalla trombosi coronarica. Nei pazienti con angina variante e assenza di stenosi ostruttive tale iperreattività rappresenta l’alterazione predominante. Infine, l’instabilità d’una placca aterosclerotica può essere favorita da alterazioni sistemiche del sistema emocoagulativo.

Prognosi dell’angina instabile. Una stima accurata della prognosi dell’angina instabile
può essere basata solo sulla conoscenza precisa delle cause dell’instabilità nel singolo
paziente. Non avendo ancora questa informazione, possiamo operare una stratificazione prognostica ragionevolmente accurata tenendo presente che quest’ultima è influenzata da tre fattori: 1) l’intervallo di tempo intercorso dall’insorgenza dei sintomi;
2) la gravità della cardiopatia ischemica pre-esistente; 3) l’intensità degli stimoli ischemici acuti responsabili dell’instabilità.

Variazione della prognosi nel tempo. La prognosi dipende dal momento in cui si
opera la stratificazione prognostica. Nella maggior parte degli studi quest’ultima è statavalutata non all’insorgenza dei sintomi, ma solo dopo aver stabilito in maniera definitiva la diagnosi d’angina instabile. È probabile che la prognosi dei pazienti in cui è già stata ottenuta una diagnosi definitiva d’angina instabile sia sensibilmente migliore di quella valutata all’insorgenza dei sintomi in quanto esclude i pazienti a più alto rischio che evolvono rapidamente verso l’infarto o la morte improvvisa. Ciò è chiaramentedimostrato dai risultati del Duke Cardiovascular Databank che descrivono la prognosi di 21.761 pazienti ricoverati dal 1985 al 1992 per cardiopatia ischemica non sottoposti a rivascolarizzazione (riportato nella voce bibliografica 1). I pazienti furono raggruppati sulla base della diagnosi al momento dell’ammissione in pazienti con angina stabile, con angina instabile e con infarto. il rischio di morte cardiaca dei pazienti con angina instabile e con infarto raggiunse il valore più alto al momento dell’ammissione per ridursi esponenzialmente nei primi mesi. In seguito il rischio di morte cardiaca risultò simile per le tre popolazioni di pazienti. Questi risultati hanno un’importante implicazione pratica,
in quanto dimostrano che a distanza di pochi mesi da un episodio d’instabilità, la
prognosi del paziente può essere basata sugli stessi criteri utilizzati per i pazienti con
angina stabile.
Determinanti cronici della prognosi. I determinanti cronici della prognosi che influenzano la vulnerabilità del cuore agli stimoli ischemici acuti sono rappresentati
dalla gravità del danno ventricolare pre-esistente (che rende il cuore più vulnerabile
ad ulteriori perdite di miocardio ed alle aritmie indotte dall’ischemia), dalla sede e
gravità delle stenosi coronariche (che determinano la quantità di miocardio a rischio
d’ischemia), e dall’età che determina un aumento esponenziale di mortalità in caso di
evoluzione infartuale. Questi indicatori cronici della prognosi hanno un effetto moltiplicativo sui determinanti prognostici acuti.
Determinanti acuti della prognosi. In assenza di cause extracoronariche, la tendenza
ad evolvere verso l’infarto è suggerita: 1) dalla presenza di attacchi anginosi a riposo;
2) dalla refrattarietà alla terapia medica. Il tempo totale d’ischemia, considerando
sia gli episodi sintomatici che asintomatici, è un predittore prognostico molto
più potente del numero di episodi anginosi.
Negli ultimi anni sono stati identificati numerosi altri possibili indicatori prognostici:
1) la presenza di stenosi complesse alla coronarografia32; 2) valori sierici elevati di troponina T, un marker di necrosi miocardica; 3) valori sierici elevati di proteina C-reattiva, una proteina di fase acuta20; 4) valori sierici elevati dell’inibitore dell’attivatore del plasminogno, 5) valori sierici elevati d’endotelina, un potente costrittore del microcircolo coronarico.
Mentre queste osservazioni sono estremamente stimolanti per quanto concerne la comprensione della patogenesi dell’angina instabile e confermano la complessa genesi di questa sindrome, la loro utilità nel contesto clinico è ancora da dimostrare. A tale scopo occorrerebbe documentare un loro valore prognostico aggiuntivo una volta operata la stratificazione prognostica basata sui determinanti acuti e cronici della prognosi già noti.
Classificazione a scopo prognostico dell’angina instabile. La stratificazione prognostica
e l’approccio al trattamento di molte malattie sono agevolati da una classificazione
logica. Nell’ambito della cardiopatia ischemica le classificazioni messe a punto per i
pazienti con infarto miocardico o con angina cronica sono state di grande utilità nel
definire la storia naturale della malattia, nell’identificare le terapie più appropriate e
nel paragonare l’esito di terapie attuate in posti diversi ed in periodi diversi. È pertanto
opportuno mettere a punto una classificazione anche per l’angina instabile. Una classificazione
molto usata a tal riguardo è quella di Braunwald36. Questa classificazione ha
il pregio della semplicità, ma il difetto di raggruppare insieme pazienti estremamente
diversi dal punto di vista prognostico. Per esempio, pazienti con scompenso cardiaco
vengono raggruppati insieme a pazienti con buona funzione ventricolare e pazienti in
classe CCSC 1 o 4 vengono raggruppati insieme se hanno episodi di angina a riposo.
Inoltre in uno studio recentemente pubblicato in cui è stata valutata la prognosi di 282
pazienti consecutivi con angina instabile, l’83% dei pazienti apparteneva ai gruppi IB e
IIIB secondo Braunwald e solo il 17% dei pazienti apparteneva ai rimanenti gruppi; da
notare ancora che la prognosi (sopravvivenza senza infarto a 6 mesi) era piuttosto simile per i 6 gruppi in quanto variava dall’80% al 91%37.
Pertanto, proponiamo una nuova classificazione dell’angina instabile basata su 5
parametri clinici, tutti facilmente identificabili raccogliendo una buona anamnesi. In
questa classificazione l’angina instabile viene definita come angina di nuova insorgenza, angina ingravescente o angina post-infartuale (vedere Tabella I) in assenza di fattori precipitanti extracoronarici quali anemia, febbre, infezioni, ipotensione, ipertensione non controllata, tachiaritmie, tireotossicosi od ipossiemia secondaria ad insufficienzarespiratoria.

I parametri su cui è basata questa classificazione prognostica sono
elencati nella Tabella III. Alcuni di questi parametri riflettono i fattori di rischio cronico,
altri i fattori di rischio acuto.
Pertanto un paziente che presenta angina di nuova insorgenza con episodi di angina
a riposo nell’ultima settimana ma non nelle ultime 24 ore in assenza di terapia sarebbe Tabella III. Classificazione a scopo prognostico dell’angina instabile
Angina Classe CCSC
pre-esistente
Stato Classe NYHA
funzionale
Infarto Assente (1) Non recente (2) Recente (3)
pregresso > 2 settimane < 2 settimane
Angina Assente (A) Sub-acuta (B) Acuta (C)
a riposo nelle ultime 2 settimane nelle ultime 24 ore
ma non nelle ultime 24 ore
Terapia Nessuna terapia (a) Anti-ischemica orale (b) Infusionale (c)
praticata

classificato CCSC 0, NYHA 1, lBa. Di converso un paziente con angina stabile
preesistente CCSC 2 e in classe NYHA 2 che presenta un infarto recente (meno di 2
settimane) ed anginapost-infartuale con episodi a riposo nelle ultime 24 ore nonostante
terapia con farmaci anti-ischemici orali sarebbe classificato CCSC 2, NYHA 2, 3Cb.
È ovvio che la stima del rischio medio definito sulla base dei determinanti acuti
e cronici della prognosi sopramenzionati richiede una raccolta prospettica di dati.
Studi futuri potranno suggerire che i criteri d’inclusione in ognuno dei gruppi
prognostici debbono essere modificati sulla base di nuovi marker prognostici, forse
bioumorali. Nel frattempo questa classificazione può aiutare non solo a scambiare
informazioni circa i pazienti con angina instabile, ma anche a valutare l’effetto di
nuove strategie terapeutiche in popolazioni di pazienti clinicamente omogenei.
CLINICA IL DISTURBO PRESENTE VIENE DESCRITTO COME
Pressione
Oppressione
Pesantezza
Costrizione
Compressione
Ripienezza
Soffocamento
Fastidio
Sofferenza
Bruciore al cuore
Disagio
Gonfiore
Bruciore
Intorpidimento
Indurimento
Durezza
Strangolamento
Indigestione
Come una morsa


La patogenesi, la presentazione clinica, sono tuttavia differenti nelle diverse espressioni della cardiopatia ischemica che possono manifestarsi isolatamente, in associazione o come conseguenza l'una dell'altra. La prognosi, a sua volta, è diversa a seconda della presentazione clinica e di come l'evento si iscrive nella storia "coronarica" del singolo paziente: un episodio di sottoslivellamento transitorio del tratto ST rilevato all'eleurocardiogramma dinamico indicativo di una ischemia silente, ad esempio, assume un peso prognostico ben diverso se si presenta in un paziente asintomatico con fattori di rischio o se si manifesta in un paziente con angina instabile ricoverato in Unità Coronarica nel quale la persistenza di episodi ischemici, anche se asintomatici, costituisce un elemento prognostico sfavorevole. Tutti questi elementi anamnestici, clinici e strumentali vanno presi in considerazione per inquadrare il paziente, e questo rende ragione di come necessariamente l'approccio terapeutico debba essere mirato e possa essere razionalmente definito solo dopo avere chiarito la patogenesi dell'evento ischemico nel singolo paziente.

Scopi della terapia nella cardiopatia ischemica sono:

1) eliminare l'ischemia, attraverso una serie di presidi, medici o chirurgici, che migliorino l'apporto di sangue ai tessuti o comunque normalizzino il rapporto apporto/consumo di ossigeno;

2) interrompere o ritardare la malattia aterosclerotica, quindi interferire con la evolutività tipica di questa malattia;

3) prevenire le complicanze, soprattutto l'infarto e la morte improvvisa.

Mentre spesso si riesce ad adempiere al primo punto, sia con la terapia medica sia con interventi di rivascolarizzazione mediante bypass o angioplastica, non sempre si è in grado di assolvere gli altri due punti.

I determinanti prognostici principali comuni a tutte le diverse forme cliniche con cui si esprime la patologia ischemica sono la gravità della coronaropatia e la funzione ventricolare sinistra. Altri indici assumono un peso prognostico diverso a seconda della forma clinica: le aritmie ventricolari, ad esempio, hanno un peso prognostico ben differente nella fase subacuta dell'infarto miocardico, dove la presenza di battiti ectopici ventricolari non complessi, ma di numero superiore a 10 all'ora, si associa ad un rischio più elevato di morte improvvisa, rispetto a quelle che compaiono in un paziente con angina da sforzo dove la presenza di extrasistoli ventricolari, anche numerose, non si associa ad un aumento sostanziale del rischio. Nella successiva trattazione ciascuna forma clinica verrà quindi affrontata individuando, in base alle premesse fisiopatologiche ed alle determinanti prognostiche, il razionale per un approccio terapeutico mirato, tenendo in conto i risultati degli studi disponibili. Verranno prese in considerazione quelle forme chimiche che più frequentemente il medico pratico si trova a dovere affrontare o a gestire in collaborazione con lo specialista cardiologo, tralasciando l'infarto miocardico e la morte improvvisa che costituiscono un capitolo a sé per la loro importanza e per le problematiche particolari che comportano.

Principi generali di terapia

Esistono alcune strategie terapeutiche comuni che vanno attuate secondo dei criteri ben precisi in tutti i pazienti con cardiopatia ischemica e che verranno quindi affrontate per prime.
ABOLIZIONE DEI FATTORI DI RISCHIO

La prima manovra fondamentale nei soggetti con cardiopatia ischemica è la abolizione dei fattori di rischio correggibili.

Fumo. La nicotina esercita il proprio effetto tossico a livello coronarico attraverso una azione cronica ed una azione acuta. L'azione cronica è diretta sull'endotelio sia dei grandi sia dei piccoli vasi, soprattutto nelle zone a maggiore stress emodinamico, quali le biforcazioni o ripiegamenti (kinking) e determina una disfunzione endoteliale con perdita dei fattori protettivi locali (vasodilatatori, antiaggreganti e profibrinolitici) e una modificazione della permeabilità alle diverse componenti lipidiche, favorendo quindi lo sviluppo della lesione aterosclerotica.

L'azione acuta della nicotina è rappresentata da uno stimolo vasocostrittore nelle sedi dove l'endotelio è leso. Oltre a concorrere alla formazione della placca e alla disfunzione endoteliale cronica, la nicotina costituisce anche un fattore favorente l'instabilizzazione acuta. Un terzo elemento che facilita questa evoluzione è dato dall'attivazione della aggregazione piastrinica e dall'aumento del fibrinogeno indotto dal fumo di sigaretta; si viene dunque a determinare uno stato di ipercoagulabilità sistemica che, in associazione ad una condizione locale quale quella di una placca instabile, favorirebbe l'evoluzione trombotica a livello coronarico.

L'abolizione del fumo porta ad una riduzione delle complicanze cardiovascolari, ma non è noto se porti anche ad una regressione delle eventuali lesioni già presenti.

Dislipidemia. La correlazione tra livelli di colesterolo, coronaropatia e mortalità coronarica è indubbia e, tra l'altro, non esiste un valore di rischio soglia, ma la progressione è continua. L'aumento dei lipidi, ed in particolare di specifiche sottofrazioni quali le lDl, sembra costituire uno degli stimoli per l'instabilizzazione della placca. Tra i nuovi fattori di rischio attualmente chiamati in causa per spiegare questo fenomeno vi è una particolare frazione lipoproteica, la lp(a) che avrebbe una particolare tendenza alla perossidazione con conseguente richiamo di elementi cellulari di tipo infiammatorio e, possedendo una struttura simile all'attivatore del plasminogeno, agirebbe quale antagonista di tipo competitivo con quest'ultimo, inibendo quindi la risposta fibrinolitica spontanea.

Il trattamento dietetico/farmacologico ha dimostrato di ridurre l'incidenza di eventi cardiovascolari nei soggetti con dislipidemia e vi sono recenti segnalazioni circa la regressione e/o il ritardo della progressione della malattia coronarica in pazienti sottoposti a trattamento ipolipemizzante intensivo.

La prima manovra da considerare di fronte al paziente con manifestazioni cliniche di cardiopatia ischemica e dislipidemia è la terapia dietetica che costituisce la base anche per l'efficacia di un eventuale trattamento farmacologico. La terapia farmacologica (la cui trattazione specifica esula da questa rassegna) va riservata ai pazienti che non rispondono alla dieta.

Ipertensione. L'applicazione su vasta scala della terapia antipertensiva ha sicuramente ridotto l'incidenza di eventi cerebrovascolari, ma non ha modificato l'incidenza di eventi ischemici cardiaci in modo particolarmente significativo. La correzione dei valori di pressione arteriosa nei pazienti ipertesi e ischemici è comunque una misura fondamentale, tenendo soprattutto in conto che il postcarico rappresenta uno dei maggiori determinanti del consumo di ossigeno e che quindi la ottimizzazione della terapia richiede un adeguato controllo di questo parametro. Sbalzi acuti dei valori pressori sono anche stati chiamati in causa quali elementi facilitanti la rottura della placca, e quindi la sua instabilizzazione, per la possibilità di determinare delle forze di attrito e di tensione sui punti deboli della placca aterosclerotica, favorendone la rottura. Secondo altri Autori, invece, l'ipertensione faciliterebbe l'emorragia intraplacca, che costituisce la seconda principale causa di complicazione della lesione aterosclerotica.

CORREZIONE DEI FATTORI FAVORENTI L'ISCHEMIA MIOCARDICA

Di fronte al paziente che manifesti sintomi riferibili a ischemia miocardica vanno ricercate tutte quelle cause di cui l'ischemia miocardica potrebbe rappresentare una manifestazione secondaria.

Le tre principali determinanti del consumo di ossigeno sono la frequenza cardiaca, il precarico e il postcarico. Per quanto riguarda la frequenza cardiaca sono soprattutto le condizioni di aumento eccessivo della frequenza che possono scatenare l'ischemia, in quanto la bradicardizzazione si associa ad un aumento del tempo di diastole con un miglioramento della perfusione coronarica. In presenza di una tachiaritmia associata ad ischemia la prima manovra è quindi la correzione della tachiaritmia stessa.

Gli aumenti di precarico difficilmente si associano ad un aumento del consumo di ossigeno tale da dare ischemia, tranne in pazienti estremamente compromessi, come quelli con miocardiopatia ischemica. Più frequente è invece l'ischemia scatenata da aumento del postcarico, tipicamente durante crisi ipertensiva, che deve quindi essere risolta con la riduzione acuta dello stesso.

Tra le cause secondarie che riducono l'apporto di ossigeno ai tessuti è l'anemia, proprio per riduzione della capacità ossiforica del sangue. In condizione di grave anemia, che tra l'altro spesso si associa ad un aumento del consumo di ossigeno per tachicardizzazione, vi può essere scatenamento di ischemia. In questo caso è necessaria la correzione della anemia ricorrendo anche alla emotrasfusione.

Terapia medica dell'angina stabile

L'angina si definisce stabile quando l'ischemia, sintomatica o meno, si ripresenti con un esercizio fisico della stessa intensità e quando non vi sia una modificazione della severità, durata, frequenza, fattori precipitanti degli episodi ischemici. L'angina stabile non è necessariamente una pura angina da sforzo, ma può comprendere anche quelle forme miste, ove le crisi a riposo sono indotte da situazioni riproducibili (digestione, freddo, emozione) con carattere di relativa stabilità, in genere legate a variazioni del sistema neurovegetativo. L'angina da sforzo pura include quelle forme nelle quali la ischemia miocardica avrebbe come base patogenetica un fenomeno di discrepanza tra apporto e consumo di ossigeno. L'apporto massimale di sangue a livello coronarico è limitato dalla presenza di stenosi fisse che, a seconda della loro entità, determinano un ostacolo ad un aumento del flusso in condizioni di aumentata richiesta, come normalmente avviene, ad esempio, durante uno sforzo. Questo fenomeno è denominato "riduzione della riserva coronarica": per un ben preciso livello di consumo di ossigeno, inversamente correlato alla entità della stenosi stessa, si sviluppa ischemia. La traduzione clinica di questo aspetto patogenetico è quello del livello costante di sforzo al quale compare il sintomo "dolore anginoso" e della riproducibilità della soglia di ischemia (intesa come doppio prodotto alla prova da sforzo). Questa forma, nella quale venivano classificati un tempo la maggior parte dei pazienti con angina stabile, in realtà è molto rara. Si è infatti visto che nella maggioranza dei casi le stenosi coronariche non sono fisse, ma "dinamiche" e questa modificazione funzionale della entità della stenosi stessa si traduce nella capacità di dare ischemia per diversi livelli di consumo di ossigeno, a volte anche in condizioni basali. Ecco quindi che di fronte a particolari stimoli (freddo, emozione) vi è un aumento della capacità delle stenosi di dare ischemia, perché attraverso una costrizione, di fatto, la stenosi "aumenta". I motivi di queste modificazioni transitorie e dinamiche si stanno via via chiarendo. Da una parte si è visto che anche le stenosi apparentemente concentriche in realtà, nella maggior parte dei casi, presentano un arco di parete indenne che conserva una motilità e quindi la possibilità, attraverso una costrizione, di variare il calibro del vaso. È stato d'altra parte osservato che uno dei principali elementi che determina il tono coronarico è l’endotelio il quale, attraverso tutta una serie di fattori locali (endotelial relaxing factor, EDRF; prostaciclina; endotelialhy perpolarizing factor, EDHF) è in grado di fare in modo che diversi stimoli, da un banale aumento di flusso all'aumento della concentrazione locale di catecolamine, di trombina o di diversi mediatori (serotonina, acetilcolina, ADP), diano luogo ad una vasodilatazione locale. In assenza di un endotelio ben funzionante, come avviene in corrispondenza di una placca aterosclerotica (prima ancora che diventi emodinamicamente significativa), gli stessi stimoli diventano dei potenti vasocostrittori. Questo meccanismo chiarisce come la placca aterosclerotica, anche se non ostruttiva, possa avere tuttavia una dinamicità che in alcuni momenti la rende ischemizzante, in altri no. Queste osservazioni hanno di fatto dato il via a tutta una serie di considerazioni su come la dinamicità non sia peculiare della fase di instabilizzazione, ma è una proprietà tipica della lesione stessa. Due sono gli elementi quindi che caratterizzano una lesione aterosclerotica:

a) l'entità, vale a dire la capacità di essere ostruttiva, e come tale dare angina da discrepanza. È questa la lesione tipica che viene visualizzata all'angiografia come "critica" (riduzione del diametro superiore al 50%);

b) la vulnerabilità, ovvero la tendenza a diventare instabile se esposta ad un adeguato "trigger". Questa caratteristica è indipendente dalla severità, ma dipende probabilmente da caratteristiche locali, ancora per la maggior parte sconosciute. le placche "vulnerabili", di fronte ad uno stimolo appropriato, esprimono la loro tendenza trombogenica e possono causare infarto, angina instabile o morte improvvisa, a seconda della modalità e grado con il quale si instaura il fenomeno trombotico. Una stenosi non necessariamente deve essere ostruttiva per diventare trombogenica né tutte le lesioni ostruttive sono trombogeniche. L'angiografia in questo caso ha un potere diagnostico più limitato e, tra l'altro, non vi sono ancora dei marker che siano in grado di identificare le lesioni a maggiore potenzialità evolutiva anche se subcritiche.

In questo senso, quindi, la terapia rivolta a prevenire l'evoluzione verso l'infarto miocardico nel paziente con angina stabile deve essere rivolta all'intero albero coronarico e probabilmente ad interrompere quel circolo vizioso tra placca valnerabile conseguente a trigger conseguente a rottura conseguente a trombosi conseguente a infarto e/o morte improvvisa.

PRINCIPI DI TERAPIA

Il fine della terapia nell'angina stabile è duplice:

1) controllare i sintomi in modo che non limitino la vita del paziente;

2) migliorare la prognosi attraverso una prevenzione della evoluzione verso l'infarto e la morte.

La prima valutazione fondamentale ai fini di una scelta terapeutica corretta è quindi quella della "fascia di rischio" in cui si colloca il paziente. I determinanti prognostici dassici, che attualmente guidano la scelta terapeutica nel paziente con angina stabile, sono:

- il numero di vasi lesi con lesioni > 70% (fig.02);

- la funzione ventricolare sinistra (fig.03).

Questi elementi, da soli e in associazione, determinano diverse fasce di rischio nelle quali il valore della terapia nel modificare la prognosi è diverso. Una volta inquadrato, attraverso i diversi test strumentali (la cui trattazione esula da questa rassegna), a quale categoria appartiene il singolo paziente è possibile operare la prima scelta, vale a dire terapia medica o terapia chirurgica. La terapia chirurgica ha dimostrato di migliorare la prognosi in tre sottogruppi di pazienti: quelli con lesioni critiche del tronco comune, con lesioni critiche di tre vasi e ridotta funzione contrattile, quelli con ischemia severa e patologia dell'interventricolare anteriore prossimale. La possibilità di eseguire l'angioplastica, che costituisce un approccio relativamente poco invasivo, ha portato ad un allargamento delle indicazioni, ma è comunque importante sottolineare che, dal punto di vista prognostico, sono solo le categorie sopra indicate di pazienti che traggono un beneficio in termini prognostici. Se il paziente non si inquadra in uno di questi gruppi ad alto rischio, è quindi opinabile una scelta medica rispetto ad una scelta chirurgica. In questo caso entreranno nella scelta elementi specifici per ogni singolo paziente, quali la efficacia clinica della terapia medica, l'adesione alla terapia farmacologica, l'accettazione di un modello di vita eventualmente più di risparmio, la presenza di patologie associate che rendano più rischioso un intervento chirurgico e il reale rapporto rischi/benefici di una eventuale rivascolarizzazione. Una volta che si sia ritenuto indicato un trattamento di tipo medico, l'impiego degli specifici principi farmacologici va personalizzato.

La riabilitazione dopo infarto del miocardio
E’ suddivisa in 3 fasi
FASE 1 che si realizza durante la degenza e fino alla prima valutazione funzionale ergometrica
In media in 30 giornata dall’evento acuto viene eseguita la prima valutazione funzionale dopo infarto miocardico con
ECOCARDIOGRAMMA
ECG DINAMICO
TEST ERGOMETRICO MASSIMALE
Se non si evidenziano controindicazioni inizia la fase 2 di riabilitazione di 8 settimane con frequenza Trisettimanale in Centri specializzati in riabilitazione cardiolgica
FASE 2 caratterizzata da un condizionamento fisico controllato per un periodo in media di 8 settimane, fino alla seconda valutazione funzionale ergometrica
FASE 3 non sempre attuata in pieno che dura tutta la vita ed ha 2 obiettivi
Mantenere e migliorare lo stato fisico, psicologico, sociale professionale e ricreativo raggiunto nella fase 2
Proseguire il programma di prevenzione secondaria della cardiopatia ischemica
IL COCIS(Comitato organizzativo cardiologico per l’Idoneita’ allo Sport) riguardo all’idoneita’ agonistica indica la possibilita’ di svolgere sport ad impegno cardiovascolare minimo.
Elenco degli sport che il COCIS indica come possibili a livello agonistico
GOLF TIRO A SEGNO CRICKET TIRO A VOLO BOCCE PESCA SPORTIVA BOWLING
A pazienti con pregresso infarto miocardico non complicato (assenza di ischemia silente ,insuff cardiaca turbe del ritmo)
TALI SOGGETTI DEVONO ESSERE STATI AFFETTI DA INFARTO MIOCARDICO NON COMPLICATO E DEVONO SOTTOPORSI PERIODICAMENTE A GIUDIZIO DEL CARDIOLOGO AD ESAMI CARDIOLOGICI DI CUI VENGONO STABILITE LE LINEE GUIDA
Attivita’ a maggiore impegno cardiovascolare ma con finalita’ non agonistiche vengono consigliate nel quadro di una riabilitazione psico-fisica e della prevenzione della cardiopatia ischemica
L’ALLENAMENTO
PROTEGGE IL CUORE DOPO L’INFARTO cioè prolunga e migliora la sopravvivenza ? Ha una risposta ancora piuttosto vaga per quanto riguarda le modalita’ di allenamento anche se alcuni lavori mettono in evidenza la riduzione della mortalita’ fino al 25% dopo 3 o 5 aa di osservazione
Oppure AUMENTA IL RISCHIO di nuovi episodi ischemici acuti durante l’allenamento?Tale rischio è sicuramente superiore a quello attribuito all’allenamento nella popolazione normale

Il rischio di nuovi episodi di ischemia durante l’allenamento è reale soprattutto nei soggetti con ridotta capacita’ funzionale post infarto
MA SONO SOPRATTUTTO QUESTI SOGGETTI (CON CARDIOPATIE POSTINFARTUALI GRAVI) CHE SI AVVALGONO MAGGIORMENTE DEI BENEFICI DELLA RIABILITAZIONE E DELLA’ALLENAMENTO MIRATO
(A tale proposito va ricordato che il rischio e’ tanto maggiore quanto + intenso è l’esercizio
Negli ultimi decenni si e’aumentato l’interesse sul ruolo dell’esercizio fisico quale “efficace presidio terapeutico” non farmacologico nel preservare e migliorare lo stato di salute. Secondo gli ultimi studi sembra che un’allenamento di moderata intensita’ sia sufficiente a controllare i livelli lipemici e a ridurre il rischio cardiovascolare globale
-Un programma di allenamento + pesante,invece, non sembra offrire vantaggi significativi.
Lo stimolo fisico necessario sembra individuato in un valore “soglia” di circa 1000 Kcal la settimana,pari a 12Km di corsa praticata ad un’intensita’ pari al 50-70% della frequenza cardiaca massimale e con una frequenza settimanale di 3-4 sedute di 30 minuti ciascuna
fondamentali per un corretto programma sono:
�A) Fase di graduale riscaldamento inziale
�B) Fase di defaticamento finale
�Al fine di ridurre al minimo i rischi
Sono altresi’ negativi alcuni fattori ambientali:
�-SCARSA ACCESSIBILITA’ AGLI IMPIANTI SPORTIVI
�-MANCANZA DI SOSTEGNO FAMILIARE
�-PRORAMMA DI ESERCIZIO NON ADEGUATO
�chi praticava sport a livello agonistico
Prima dell’infarto DEVE ESSERE SOSTENUTO DAL PUNTO DI VISTA PSICOLOGICO
FACILE UNA DEPRESSIONE (nociva per un buon recupero)
SI REALIZZA UNO STATO DI INCREDULITA’ (dell’evento accaduto con tentativo irrazionale di negare la malattia e quindi si espone a gravi rischi volendo dimostrare a sé stessi e agli altri che niente è cambiato)
La SENSAZIONE soggettiva di fatica è in genere sottovalutata dall’ex atleta
QUINDI E’ OPPORTUNO INSEGNARE A QUESTI PZ
SEGNI PREMONITORI DELL’ISCHEMIA
USO DI STRUMENTI SEMPLICI QUALI IL CARDIOFREQUENZIMETRO per dosare l’esercizio fisico
La tempestiva segnalazione di un sintomo premonitore anche se apparentemente non di grande importanza E il susseguente raggiungimento veloce di un ospedale POSSONO RIDURRE GLI EFFETTI DI UN REINFARTO E A VOLTE SALVARE LA VITA DEL PZ
E’ MOLTO IMP CHE L’ATTIVITA’ FISICA NON SIA SALTUARIA MA SIA SVOLTA CON REGOLARITA’ + VOLTE LA SETTIMANA
IN PRESENZA DI FATTORI DI RISCHIO DI PROGRESSIONE DI MLT SONO INDISPENSABILI VISITE PERIODICHE PER LA RIVALUTAZIONE DELLA SITUAZIONE CLINICA DEL PZ E L’ESERCIZIO VA PRESCRITTO A BASSA INTENSITA’
IN OGNI CASO, UN ATTIVITA’ A BASSO CONSUMO ENERGETICO ( CAMMINATA , BICICLETTA LENTA SVOLTA QUOTIDIANAMENTE E’ CONSIGLIATA A TUTTI I PZ
LA RIPRESA DELL’AGONISMO CHIARAMENTE E’ CONTROINDICATA (A PARTE PER QUEGLI SPORT INDICATI NELLA SLIDE PRECEDENTE) AD IMPEGNO PER LO + NEUROGENO